Conteniamo moltitudini. Il Coronavirus e la distruzione del concetto di comunità
I’m just like Anne Frank, like Indiana Jones
And them British bad boys, The Rolling Stones
I go right to the edge, I go right to the end
I go right where all things lost are made good again
I sing the songs of experience like William Blake
I have no apologies to make
Everything’s flowing all at the same time
I live on the boulevard of crime
I drive fast cars, and I eat fast foods
I contain multitudes
Contengo moltitudini. Nel bel mezzo della pandemia e della quarantena, Bob Dylan ha pubblicato questa canzone che, nel titolo e nel ritornello, cita apertamente la poesia pubblicata da Walt Whitman il 4 luglio del 1855.
Siamo vasti, conteniamo moltitudini. Ed è affascinante che a ribadire questo concetto sia proprio Dylan, che dell’impossibilità di afferrare la sua vera identità ha fatto un marchio di fabbrica, nel corso degli ultimi 50 anni.
Poeta maledetto, menestrello, cowboy, predicatore, rockstar, crooner. Come Robert Allen Zimmerman, ognuno di noi è tutte queste cose, spesso insieme, a volte addirittura nello stesso momento.
In questo periodo storico, è particolarmente importante ribadire l’ampiezza e la contraddittorietà intrinseca dell’identità di ciascuno di noi. In quanto esseri viventi, siamo continuamente modellati, cambiati e influenzati dall’ambiente circostante, dal contesto storico e sociale, dalle amicizie, dalle persone che incontriamo e frequentiamo, dalle idee con cui veniamo in contatto.
Perché però queste moltitudini singole possano essere in grado di parlarsi, di comunicare, di costruire un tessuto sociale — e quindi di continuare a influenzarsi a vicenda — è fondamentale che esistano delle basi condivise, dei punti fermi a partire dai quali ogni idea è completamente legittima, perché nata da riflessioni condivise e da un terreno comune.
Negli ultimi due mesi, abbiamo avuto a che fare con un punto di partenza molto concreto. Il Coronavirus è, per la mia generazione, un evento di cesura forte, un evento che potrebbe rappresentare — auspicabilmente e al netto delle conseguenze economiche — la possibilità di avere un dopoguerra, un momento dal quale ripartire e ricostruire.
Questo, così come un dibattito pubblico sano su questa gigantesca pandemia che ha colpito ciascuno di noi, è possibile solo ed esclusivamente se tutti partiamo da una stessa base, da una stessa idea condivisa. Se tutti noi siamo in grado di condividere una narrazione il più possibile unitaria, univoca sul tema, che ci permetta di resistere e poi ripartire allo scoppio della stessa pistola dello starter per ricostruire.
La notizia, però, è che una narrazione davvero condivisa non esiste.
In altre parole, non stiamo vivendo la stessa pandemia.
Partiamo dalla narrazione, dall’idea condivisa da cui iniziare a parlare e da cui ripartire. Secondo il sito di informazione americano Axios, la maggior parte degli statunitensi non crede che il numero delle morti da Coronavirus sia così alto come lo comunicano le autorità.
Da questa parte del mondo, secondo un sondaggio condotto da Gallup, un italiano su quattro crede che il Sars-Cov2 sia originato da qualche parte in laboratorio e solo poco meno della metà degli intervistati ritiene si tratti di un virus naturale.
Cina, Bill Gates, immigrati da regolarizzare, Soros, WHO. Sono talmente tante le teorie che circolano sul web che la torta andrebbe ancora di più divisa, con fette e rivoli di narrazioni sempre più piccoli, sempre più di nicchia.
La rivista americana The Atlantic ha condotto un sondaggio proponendo a un campione di statunitensi 22 delle teorie del complotto più accreditate su Internet in queste settimane. Il 91% degli intervistati si è detto d’accordo con almeno una delle spiegazioni proposte per la pandemia.
Almeno una.
Di che cosa parliamo quando parliamo di Coronavirus? Parliamo di una serie di cose diverse, con spiegazioni, colpevoli e cattivi differenti. Anche all’interno del mondo delle teorie del complotto.
E quando parliamo di isolamento, invece, di cosa parliamo? Ancora una volta, di differenze, di divisioni, di mondi diversi che fanno una fatica sempre maggiore a toccarsi, a parlarsi, a condividere anche solo un momento di lutto e di raccoglimento.
Il Washington Post ha analizzato, la scorsa settimana, la situazione di Chelsea, Massachusetts, un sobborgo alle porte di Boston, dove abitano 40.000 persone. A Chelsea vivono soprattutto immigrati, che spesso lavorano a Boston ma che non hanno la possibilità di avere una casa nel perimetro urbano.
Chelsea è stata la città più colpita dal Coronavirus, in Massachusetts. Del resto, ci abitano tutti essential worker, cassieri di supermercati, benzinai, operai. E continuare a circolare, anche in periodo di lockdown, aumenta esponenzialmente la possibilità di contrarre il Coronavirus.
Pensate a quanto abbiamo accolto con favore e poi odiato lo smart working, in queste settimane. A Chelsea non hanno idea di cosa sia, il lavoro da remoto.
Il Coronavirus ha reso evidente quanto, come comunità, siamo stati in grado di dividerci, di separarci, in primo luogo sulla base di marcatori economici e sociali e poi, all’interno di questi, sulla base di relazioni e interessi.
Secondo un bellissimo articolo dell’editorial board del New York Times, il Coronavirus deve essere un’occasione per ripensare il concetto di città, intesa come comunità di persone che condividono spazi fisici e servizi.
Nel corso degli ultimi 30 anni, le città si sono allargate in ampiezza, escludendo sempre di più — e in maniera sempre più netta e violenta — chiunque non fosse in grado di permettersi un’abitazione all’interno del perimetro urbano.
A Chicago bastano 8 miglia (poco meno di 13 km) per determinare se una persona vivrà 90 anni o 60. È la distanza che passa tra un quartiere residenziale per medio-alta borghesia e un ghetto per immigrati e operai.
Le conseguenze di questo isolamento — prima del lockdown — si vedono nella fine di ogni tipo di contaminazione, di una qualunque parvenza di ascensore sociale, che renda anche solo immaginabile e visibile la possibilità di diventare qualcos’altro, a prescindere dal posto in cui si è nati.
E questa era la situazione prima del virus.
Per colpa del virus, l’isolamento è aumentato. Le prospettive si sono ristrette ancora di più: dal quartiere all’isolato, fino all’appartamento. E tutti noi ci siamo spostati — e affidati — sempre di più allo spazio digitale.
Abbiamo sfruttato, anche in questo caso, una tendenza — tecnologica e sociale — già presente prima della pandemia, che consente a ognuno di noi di avere virtualmente a disposizione qualunque cosa nella propria abitazione.
Film, serie tv, cibo a domicilio, spesa, libri, dischi, informazioni. Qualunque cosa. E allora ciascuno si è chiuso al sicuro della propria casa, con i suoi film, i suoi libri, i suoi dischi. E un dibattito pubblico di fatto completamente affidato allo spazio digitale.
Ma lo spazio digitale non costruisce comunità. Ognuno sceglie le fonti da seguire, ognuno, anche involontariamente, è esposto a informazioni simili tra di loro, che l’algoritmo considera più adatte a lui. E continua a confrontarsi solo ed esclusivamente con le persone che conosceva prima, con le persone che gli sono in qualche modo vicine, di cui ha il numero di telefono e con cui ha qualche tipo di contatto diretto.
Ognuno parla con chi gli è vicino, con chi gli è simile. Ed è quindi esposto solo a quelle vite.
Cosa vuol dire essere un lavoratore essenziale? Cosa vuol dire uscire mentre muoiono 1.000 persone al giorno e l’unica cosa che tu puoi fare è indossare una mascherina senza sapere nemmeno bene come si fa?
Non lo so.
Il mio problema di questo periodo è stato lo smart working, la paura per le persone a cui tengo lontane da me, la costruzione di un equilibrio in una situazione in continua evoluzione. E ho parlato solo con persone con problemi tutto sommato simili ai miei e letto articoli su questi temi e approfondito le conseguenze di tutto questo sulla mia vita.
E ognuno di noi ha fatto lo stesso: ha vissuto la sua pandemia.
Il Coronavirus, finora, ha solo amplificato quanto già vivevamo, velocizzando processi sociali già in corso da molti anni. Questo evento, però, come ha scritto Arundhati Roy sull’Economist, può essere, un portale verso qualcosa di nuovo.
E se c’è davvero qualcosa da ricostruire quello è il nostro senso di comunità, la nostra capacità di uscire da qualunque tipo di bolla per provare ad avere una visione più ampia di quello che succede intorno a noi. Ricominciare a contaminarci — non con virus e batteri — ma con idee, esperienze, storie di vita.
Solo così possiamo pensare di uscirne migliori.